Seguendo “La Carovana del Sale”

Un viaggio con nuovi occhi | Apr 30 | 2020 |

Dopo aver viaggiato evocando i sensi e la fantasia,
dopo aver percorso i deserti dell’animo e del pianeta,
dopo esserci immaginati come potrebbe realizzarsi un’esplorazione nei deserti del mondo,

desideriamo concludere la nostra avventura con un tributo ad una cara Amica e collega di settore, Elena Dak, scrittrice ed esperta di antropologia, che affrontò un lungo cammino nel deserto del Niger (ben 35giorni e 1200 km) a seguito di una carovana composta da 30 Tuareg e 300 cammelli.


Nata a Venezia, Elena ha fatto dei viaggi un elemento di vita e del nomadismo oggetto dei suoi studi antropologici.

“Fare esperienza del mondo e delle diverse realtà che lo compongono è apparso un obiettivo, viaggiare per i sentieri della terra, talvolta fuori dai percorsi battuti, si è trasformato in un imperativo oltre che un mestiere”;

“Dalle sabbie del Ciad alle acque del Mekong, ovunque ci siano terre da percorrere e genti da conoscere, cerco di andare con sguardo accogliente e passo leggero”

Queste le parole che Elena usa nel descrivere se stessa e la sua passione.

Amante dei libri, per Elena fu chiaro sin da subito: viaggiare, osservare, narrare… un paradigma irrinunciabile che la spinse, dopo aver percorso a piedi nel 2005 un drappo del deserto del Tenéré per 1200 km, a scrivere il suo libro “La Carovana del Sale” (editore Corbaccio) di cui, a seguire, abbiamo estrapolato due passaggi.

Per completezza di racconto desidero citare anche le ulteriori opere di Elena Dak, cosi vivide poiché risultanti da esperienze realmente vissute dalla scrittrice nei luoghi descritti: “Sana’a e la notte” (2012 prima edizione, nuova edizione Poiesis Editrice 2019), “Io cammino con i nomadi” (2016 Corbaccio), “Ancora in cammino” (2020 Crowdbook edizioni)
Ai primi due è stato dedicato un corso di Letteratura Italiana Contemporanea presso l’università Cà Foscari di Venezia.



“Ogni giorno era apparentemente uguale ai precedenti e a quelli che seguivano. Le sveglie infatti erano sempre precoci, i ritmi serrati, il sonno atroce, il sonno impietoso. La magia, al contrario, era a ogni nuova alba più intensa come se di giorno si accumulasse in strati crescendo in spessore. L’Africa ci faceva dono di cieli meravigliosi di epico respiro, cieli mobili che ogni giorno ci avvolgevano in abbracci roventi e ogni notte ci regalavano pioggia di stelle. I miei brividi trovarono posto dentro scenari di rara bellezza. Il deserto si lasciava attraversare quieto e arrendevole. “Ténéré tetaffu tchighoorad, tessàsagh’ru tezyder, il deserto regala la forza e insegna la pazienza” disse Attaher la volta in cui gli chiesi se amasse il deserto. Il suo sguardo, come quello di tutti gli altri, si posava sullo spazio vasto intorno a noi con la fierezza di chi ama, conosce e teme. “Noi siamo quelli dell’inesperienza e dell’ebbrezza” scriveva Moravia di ritorno da un viaggio nel Sahara. Mi riconobbi in quelle parole, incapace io di contenere e al tempo stesso di esprimere l’emozione che scaturì da ogni attimo. Il deserto ci lasciò passare come figurine di cartapesta su un foglio di sabbia. Talvolta le dune si strinsero intorno a noi alte e vellutate come glutei e fianchi di donna, altre volte si tennero un po’ distanti in cordoni paralleli. Il silenzio, lo spazio, la sabbia sfavillante e liscia o accartocciata come seta, le ombre, questo andare lontano, lento e maestoso al tempo stesso, riempivano un tempo senza limiti, senza timori. Si avvertiva solo il leggero brusio dei passi. Ogni attimo mi pareva eterno. Ogni attimo sembrava tenesse in sé il senso del mio essere lì. Pensai a Ella Maillart: “Soltanto per questo istante di assoluta compiutezza era valsa la pena di percorrere un così lungo cammino”.


Il 18 ottobre attraversammo la parte del deserto più bella fino a quel momento. L’aria era tersa e senza vento e noi, inesorabilmente in marcia, sembravamo esseri animati da un cieco intento in un paesaggio totalmente immobile. Nel primo mattino, ancora ignaro del sole, salii su Osvaldo perchè il sonno non mi dava tregua. Chiusi gli occhi per un po’ e si levò una brezza profumata di tabacco, inebriante. Ero lì, in alto, nel buio e quell’aria mi prese le guance come mani fresche. In effetti di giorno il deserto è feroce, ma la sera e fino alle prime ore del mattino mantiene sempre la promessa del refrigerio. Nella piena luce attraversammo uno splendido cordone di dune sollevando nubi di polvere. I giovani figli di Attaher corsero sulle creste affiliate e si buttarono giù in corsa sfrenata. Io tentai di catturare con lo sguardo l’intera carovana. Eravamo tanti, tantissimi e i colori degli animali e dei carichi accesi solo dal blu delle vesti creavano un cromatismo di non comune raffinatezza.


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